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Potere del e nel web. Ma quanto siamo davvero liberi?

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L’incontro al Teatro Gobetti si apre con una domanda di Luca Tremolada, giornalista de ” Il Sole 24 ore”: “Quanti hanno un profilo Facebook?”. La risposta è ovviamente un’alzata di mani generale. Il social network di Mark Zuckerberg, infatti, ha conquistato ben 17 milioni di utenti in tutta Italia, 500 milioni nel mondo. Ma chi c’è davvero dietro al magico mondo della rete?

Secondo Juan Carlos De Martin, professore del Politecnico di Torino, non è facile sapere chi detiene il potere del web. “Internet è come una grande torta: c’è prima chi costruisce il computer e chi crea il software, poi chi vende l’accesso a Internet fino ad arrivare a chi riceve materialmente i miei dati”, spiega De Martin. E chi li riceve questi dati? “Ovviamente il nostro Mark Zuckerberg nel caso di Facebook”, dice il filosofo Maurizio Ferraris. E continua: “E il bello è che mezzo miliardo di persone rinuncia volontariamente alla propria privacy”. Gli aspetti positivi e negativi del web si riassumono nella definizione di Ferraris dell’Iphone: “Con questo oggetto hai il mondo in mano ma sei anche in mano al mondo”. Internet nasce infatti come strumento militare, per controllare l’universo minacciato dall’atomo. E il più grande pericolo del web, che paradossalmente è anche il suo miglior pregio, è che accessibile a tutti, buoni e cattivi.

Quando la parola passa al docente freelance di Performing Media, Carlo Infante, dietro di lui scorrono in tempo reale i tweet sull’incontro. Infante mette in luce gli aspetti più “democratici” del web sostenendo che “c’è bisogno di inventare nuove forme per la partecipazione perché è attraverso la tecnologia che passa il potere, ovvero le idee”.

Un allarme viene lanciato dal coordinatore dell’incontro, Luca Tremolada, sui tentavi dei politici di mettere le mani sul web. “Il web non deve diventare il megafono della politica, ma uno spazio di dialogo aperto a tutti”. Un ricordo va anche al blogger Vittorio Arrigoni, ucciso ieri a Gaza, a cui va il merito di “aver usato la rete proprio per disinnescare il potere”.

Carlotta Addante, Master in Giornalismo Torino

Mieli racconta il Risorgimento

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Paolo Mieli spiega il Risorgimento

Tutto esaurito al Teatro Carignano per la lectio magistralis di Paolo Mieli intitolata “1861: Risorgimento e antirisorgimento”. Giornalista e storico, l’ex direttore de “Il Corriere della Sera” ha elogiato Giuseppe Mazzini, uno dei primi pensatori a concepire il progetto di uno stato italiano unito, nonostante abbia pagato molte volte con l’esilio ed il carcere questo sogno.

Poi è passato a spiegare come la storia dell’Unità d’Italia sia stata piena di contraddizioni fin dagli esordi del suo progetto, alla fine del Settecento. Tra i vari problemi ci sono state le delusioni seguite all’invasione francese del 1796 e la cessione di Venezia all’Austria. In seguito la controrivoluzione cattolica dei sanfedisti del cardinale Ruffo, le trame della diplomazia straniera, e il ritiro del papa Pio IX dalla prima guerra d’indipendenza. Su questo punto Mieli si è soffermato sottolineando come l’Italia sia l’unica Nazione che sia nata da una guerra combattuta contro la propria religione.

Mieli ha poi fatto notare come le contraddizioni del Risorgimento abbiano segnato le celebrazioni precedenti dell’Unità: nel 1911 la festa è stata osteggiata dai Gesuiti e dai socialisti; nel 1961 i festeggiamenti sono stati maggiormente sentiti, anche se la classe dirigente era composta dalle forze in passato contrarie all’Unità e sul concetto di Patria pesava la terribile eredità fascista.

Il Teatro Carignano riempito per la lectio magistralis

L’ex direttore del Corriere ha quindi salutato le attuali celebrazioni dei 150 anni come un utile momento di riflessione libera su quelli che sono stati i nodi irrisolti dell’unificazione. Uno fra tutti il problema dell’Italia meridionale, zona che ha sofferto lutti e miserie a seguito dell’unificazione, e che meriterebbe “un risarcimento e un debito di riconoscenza da parte della nazione”.

Francesco Riccardini, Master in giornalismo di Torino

La telepolitica secondo Novelli e Roncarolo

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La politica e il suo doppio. Vale a dire la sua rappresentazione televisiva: storia di due linguaggi che si sono compenetrati fino a fondersi, annullandosi a vicenda. E diventando un’unica, indistinguibile materia. Edoardo Novelli e Franca Roncarolo tracciano, per il pubblico del Circolo dei lettori, la storia della contaminazione tra linguaggio politico e televisivo.

Sono quattro le fasi essenziali attraverso le quali si consuma questa fusione . Nella fase pre-televisiva, la politica non passa attraverso il video: per la propaganda, il partito di massa si serve della sua enorme capacità di mobilitazione della base. È l’epoca dei volantini, dei manifesti elettorali e dei comizi. Il linguaggio della politica è ancora fondato sul richiamo all’appartenenza, alla condivisione di un’ideologia.

Nel 1960, con la trasmissione delle prime Tribune politiche, si entra nell’era della Paleo-televisione: il politico entra nel piccolo schermo, conservando però il suo linguaggio, la sua specificità. In Tv si parla di programmi elettorali, di soglie di sbarramento e non esiste ancora un “modo d’esistenza televisiva” dell’uomo politico.

Che arriverà, comunque, dopo il 1975, con l’era della neo televisione. È l’epoca del pentapartito, i partiti di massa sono appena entrati in crisi e gli assetti di potere sono bloccati: la politica, ora, non sente il bisogno di conquistare il consenso attraverso lo schermo. Nel frattempo anche la televisione sta cambiando; fioriscono le Tv commerciali -senza una legge che ne regoli l’esistenza – e cambia il linguaggio e l’espressione televisiva: dalla pedagogia della tv di servizio si va sempre più verso l’intrattenimento. Gli spot elettorali non hanno più nessun richiamo all’appartenenza ideologica, ma giocano tutto sull’umana identificazione, sull’emotività: la comunicazione politica pesca a piene mani dal linguaggio del marketing. E dell’uomo politico la neotelevisione vuol conoscere l’umanità, la sfera privata, i vizi e le virtù: è il primo passo verso la personalizzazione della politica.

Che sarà al centro dell’ultima fase della tele-politica. Dal 1990 in poi, con il crollo del Muro di Berlino, la fine della prima Repubblica, delle ideologie e dei partiti di massa, cambia radicalmente il modo di fare politica. Dire uomo pubblico vale a dire uomo di spettacolo: alla Tv non basta più essere un mezzo di comunicazione; la televisione diventa un attore della politica, che indirizza il consenso, crea l’opinione pubblica. È l’era dei talk show e dei programmi d’approfondimento, di Samarcanda e della discesa in campo a reti unificate, degli uomini di spettacolo che alle elezioni fanno da testimonial.

Un’epoca che, probabilmente, non si è ancora conclusa: quella in cui è quasi impossibile distinguere la politica dal suo doppio

Antonio Storto – master in giornalismo di Torino

Spazi pubblici: tolleranza, rispetto e integrazione delle minoranze

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“L’integrazione delle minoranze nello spazio urbano europeo” è il titolo della conferenza tenutasi stamattina al Palazzo Turinetti. Molti gli esperti, tra i quali la dottoressa Simona Ardovino, della Commissione Europea, che ha illustrato le strategie di intervento delle istituzioni comunitarie, basate su tre livelli: interventi sugli stranieri, anche nei paesi d’origine (es. corsi di lingua); informazione sui migranti, rivolta alle società riceventi; sostegno a società pubbliche e private che studiano fenomeni migratori e livelli di intergrazione. Emanuela Ceva, ricercatrice di filosofia a Pavia, ha insistito sul concetto di “tolleranza”, ritenendo che nei processi di integrazione lo si debba accompagnare al principio del “rispetto”.

Si è poi passato alla rassegna di casi concreti relativi ai problemi dell’integrazione delle minoranze. Enzo Rossi ha parlato del caso dei rom in Galles, divisi tra l’ostilità delle autorità locali e il riconoscimento di etnie diversificate previste dalla legge. Charles Girard ha illustrato la questione francese dei Rom, e ha paventato il rischio di trasformare i campi in villaggi-ghetto non integrati nel territorio. Enrico Biale ha parlato del caso torinese di San Salvario, quartiere degradato dopo la prima ondata migratoria, ma risollevato con politiche di intervento municipale che hanno coinvolto le associazioni. Da tutti è emersa la necessità che nella pianificazione urbanistica delle città sia riservato un posto particolare agli spazi pubblici, facilitatori dell’integrazione in ambito europeo.

Francesco Riccardini, Master in giornalismo di Torino

Peter Gomez: il web e la distrazione di massa

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La rete non si presta ad essere utilizzata come mezzo di distrazione di massa. Peter Gomez, direttore de ilfattoquotidiano.it , ne è convinto. “Non credo alla disinformazione perpetuata tramite internet: capita che sul web circolino delle bufale, ma vengono scoperte nel giro di poco tempo”. L’ex inchiestista de L’Espresso, dopo 25 anni di “giornalismo tradizionale”, da quasi un anno si dedica a tempo pieno al giornalismo- web. Durante l’incontro alla Sala Rossa del Circolo dei Lettori, moderato da Alessandro Lanni, Gomez ha descritto la tecnica più utilizzata per disinformare, soprattutto dai telegiornali: parlare d’altro. (more…)

I nuovi poteri criminali nel racconto di Armao

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I nuovi poteri criminali. Ovvero come le mafie evolvono nel tempo, come cambiano gli assetti di potere tra i vari gruppi e al loro interno. “In italia siamo abituati ad analizzare il fenomeno mafioso guardando all’aspetto territoriale, ma questo fa perdere la visione globale, importante per spiegare un fatto: i gruppi criminali stanno avendo un successo clamoroso in tutto il mondo” Così Fabio Armao – docente di relazioni internazionali e preside della facoltà di Scienze politiche a Torino – ha introdotto un pubblico numeroso e composto soprattutto da giovanissimi in un excursus sulle nuove strategie criminali, dalla caduta del Muro di Berlino a oggi.

“Il 1989 – ha chiarito Armao – è stato uno spartiacque nella storia della criminalità. Nel dopoguerra , erano pochissimi i gruppi criminali operanti in tutto il mondo: dopo la fine del bipolarismo, alla corsa allo sviluppo economico si è accompagnata una moltiplicazione dei poteri criminali. Oggi è difficile trovare un paese che non abbia problemi di criminalità organizzata”. Ciò si spiega con la capacità che le mafie hanno di movimentare un numero enorme di merci e denaro: così facendo finiscono per svolgere un ruolo non trascurabile nello sviluppo economico di un territorio.

L’emergere dei nuovi gruppi criminali ha quindi determinato un riassetto nella gerarchia globale delle mafie: basta pensare all’importanza assunta dalla Eme (la mafia messicana) rispetto ai Narcos colombiani; o  al potere criminale della Ndrangheta, che supera ormai quello della mafia siciliana. “Ciò accade – ha precisato Armao – perché negli ultimi anni Cosa Nostra si è reintegrata così tanto nel tessuto statale da assumere le caratteristiche della mafia politica: non traffica più in droga, quindi, ma è tornata agli appalti, alla sanità, ai lavori pubblici”.

Ma, nonostante la rapida evoluzione, le organizzazioni criminali continuano a presentare delle costanti. “La struttura di partenza – ha precisato Armao – rimane ancora oggi la stessa: il clan. Si inizia sempre dal controllo totalitario di una porzione – anche minima – di territorio, che viene saccheggiato, ad esempio con il pizzo, e costituisce un vivaio per il reclutamento di nuovi soldati, sorvegliati fin da piccoli”.

Il passo successivo è la colonizzazione:  una volta arricchitesi con l’estrazione delle risorse territoriali, le mafie si spostano. Non è un caso che la criminalità organizzata segua le rotte delle migrazioni: i mafiosi italiani si spostavano in America come oggi la mafia nigeriana opera in Italia. “Questo spiega perché i migranti vengano spesso identificati con la criminalità: ma in realtà l’immigrato è la prima vittima della mafia.” Questo percorso dal locale al globale fa sì che le mafie “abbiano imparato a coniugare le due dimensioni molto meglio dei vari stati”.

Ma alle strategie economiche su scala globale si accompagna il riemergere di pratiche arcaiche: “i nuovi gruppi criminali – secondo il Professore – stanno riportando in occidente i riti iniziatici, considerati ormai estinti nella nostra società. Allo stesso modo in cui in Cosa nostra si  pungeva l’indice dei nuovi affiliati, oggi anche le nuove gang prevedono una prova d’ingresso, spesso molto violenta:  come se, prima di poter infliggere dolore, l’aspirante dovesse dimostrare di poterlo sopportare”.

La creazione di una cultura criminale, del resto, è ciò che permette alle organizzazioni di esercitare un fascino sempre maggiore sugli adolescenti. “Prendiamo i tatuaggi delle gang latine, considerate a torto un fenomeno folkloristico. Si tratta in realtà di un vero e proprio linguaggio, con cui si rivendica l’appartenenza alla gang e il disprezzo  verso i gruppi rivali”.

Un altro linguaggio che denota l’intelligenza delle organizzazioni è quello musicale: “oggi in Messico – conclude Armao – esiste un mercato enorme, con produzioni di dischi e video, per i cosiddetti Narco-Corridos, che nelle loro canzoni esaltano le gesta dei trafficanti. È interessante notare come i terroristi islamici, per conquistare il consenso dei giovani, compiano un’operazione simile: reinterpretano canti tradizionali del mondo arabo in chiave jihadista. A questo proposito, con alcuni colleghi stiamo progettando un seminario sulla musica come strumento di induzione alla violenza”.

Antonio Storto, Master in giornalismo di Torino

“L’Italia di Francesco De Sanctis” con gli occhi di Eugenio Scalfari

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“Una parte dei vizi degli italiani è data dal fatto che noi siamo un Paese di gente che vive di forte emotività”. Esordisce così Eugenio Scalfari, editorialista de ‘la Repubblica’, ospite questa mattina della Biennale Democrazia (nell’ambito dell’incontro “L’Italia di Francesco De Sanctis”, introdotto dal Presidente Zagrebelsky) in un Teatro Carignano gremito in ogni ordine di posto.

“La struttura della lingua rappresenta la nervatura del pensiero, del concetto. L’articolazione delle parole scioglie la confusione che abbiamo in testa, ma l’emotività può impedire che questo meccanismo avvenga”. E così il rischio che si corre è che al pensiero razionale, si possa sostituire la passione, la stessa che è in grado di toglierci la lucidità nei momenti che invece ne richiederebbero una dose massiccia.

Scalfari traccia così, anche attraverso le parole del critico letterario Francesco De Sanctis, una linea di continuità rispetto al passato. Il don Abbondio di manzoniana memoria e la descrizione dell’uomo secondo Guicciardini, sono per il fondatore de ‘la Repubblica’, gli esempi che meglio rappresentano l’italiano medio. Può sembrare insolito partire da così lontano per ricostruire antropologicamente il nostro carattere, eppure il carattere di don Abbondio, che cedendo alle minacce diventa irragionevole tanto da rifiutarsi di sposare Renzo e Lucia, esprime al meglio il pensiero di Scalfari.

“La borghesia italiana non ha mai voluto guidare il Paese – ha poi spiegato il giornalista -. Quando lo ha fatto è stato per interposta persona o appoggiando il potente di turno”. Sta qui dunque il malessere dell’Italia, schiacciata da una parte dal peso della propria storia e dall’altra costretta a fare i conti con “una fase assolutamente delicata”.

E così il lungo ponte della memoria serve per ricollegarsi al presente e ad una attualità inquinata dalla confusione sempre più straniante tra il “concetto di pubblico e privato”. Il riferimento (più che esplicito) è all’attuale Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e alla sua “operazione sociologica, in grado di invertire i termini con i quali le giovani generazioni nel ’68 avevano lanciato la rivoluzione culturale, ‘il privato è pubblico’” .

 Riccardo Di Grigoli,  Master in Giornalismo di Torino

“Terre d’Africa” Petrini al Carignano

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Si è  parlato di Africa al Teatro Carignano  Biennale Democrazia. Ma anche del problema della malnutrizione, delle insostenibili logiche dell’industria alimentare, dell’immigrazione nordafricana. Relatore d’eccezione Carlo Petrini, presidente di Slow Food e ideatore di Terra Madre, la rete di oltre duemila comunità del cibo impegnate a salvaguardare la qualità delle produzioni agro-alimentari locali.Negli ultimi quattro mesi il mondo è cambiato profondamente. Le rivoluzioni del Nord Africa e il disastro nucleare in Giappone hanno reso ancora più urgenti le riflessioni sull’insostenibilità del modello economico occidentale, basato sull’idea che la terra abbia risorse infinite.

La questione dell’immigrazione africana pone le sue radici nel problema della fame nel mondo. Nella nostra società il cibo è diventato merce, il cui unico valore è dettato dal prezzo. Ogni giorno tonnellate di cibo vengono gettate nell’immondizia, mentre un milione di persone soffre di malnutrizione, “nella più assoluta indifferenza di un popolo che non ha più memoria”- sottolinea Petrini. Centinaia di giovani oggi attraversano il Mediterraneo rischiando la vita “per venire in quella che per noi cent’anni fa era l’America”, terra di speranze e di opportunità. Per molti l’approdo in Europa rappresenta la seconda tappa di un lungo viaggio, iniziato nell’Africa subsahariana – la parte del continente che registra i tassi di malnutrizione della popolazione più elevati – e diretto nel Maghreb.

Siamo di fronte ad una situazione in cui l’ottavo paese produttore di petrolio – la Nigeria – si piazza agli ultimi posti nella classifica dell’indice di sviluppo umano. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto alle popolazioni subsahariane il passaggio da un’economia di sussistenza – “povera ma decorosa” – ad “un’economia industriale da esportazione”, volta a soddisfare i bisogni dei paesi più ricchi, ma che ha reso le popolazioni africane incapaci di essere autosufficienti.

Ormai l’Africa è “una terra esausta”, che sta perdendo produttività. Esistono movimenti di contadini africani che si stanno mobilitando in tutto il continente per reagire contro questa situazione. Ed è anche nostro dovere intervenire per favorire il cambiamento. Come? “Decolonizzando il nostro pensiero”, mangiando meno e richiedendo la qualità, pagandola il giusto prezzo. Ricordandoci che “il nostro modello di sviluppo non è l’unico né il più perfetto” – ha concluso Petrini.

 Francesca Dalmasso,  Master in Giornalismo di Torino

Intervista a Rui Frati

Intervista a Rui Frati

Intervista a Rui Frati, direttore del Theatre de l’Opprime di Parigi a cura dell’Associazione Tedacà.

“Simboli e diaboli”: la lectio di Zagrebelsky

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“La demagogia è la più estrema corruzione diabolica, perché si traduce nell’esaltazione del potere personificato”. I simboli, secondo le parole del Presidente della Biennale Democrazia, Gustavo Zagrebelsky, devono invece essere “fautori di una unificazione terza, ovvero impersonale e nemica di ogni tipo di demagogia”.

I segni rappresentano così l’ultimo passo verso il processo di immedesimazione rispetto ad una memoria che scava nei miti del passato. Memorie che assurgono a valore assoluto per chi vi si riconosce. Ecco allora che una bandiera non è più solo un pezzo di stoffa e la Croce rimanda ad un mondo simbolico che va ben al di là della sua apparenza.  

Eppure il rischio più grande che si rischia di correre è quello relativo alla personificazione del simbolo. “Il demagogo è colui che opera la più ardita delle identificazioni politiche. Egli si propone come simbolo politico, cioè come fattore unificante che fagocita le istituzioni (ovvero quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati, costruendoli proprio come simboli terzi). Le istituzioni vengono soverchiate dagli uomini del potere che con il loro volto le hanno coperte. Le loro voci, le loro vite private vengono riprodotte mille e più volte e questo fa di loro dei sostituti delle istituzioni stesse. Tutte le distinzioni che provengono dal diritto pubblico tra persone private e carica pubblica svaniscono nel nulla. Le regole diventano impicci, le costituzioni gabbie, la legalità, angheria.”

Il riferimento è al passato, ma il puzzle di Zagrebelsky può essere ricomposto ancora oggi. “Il senso delle istituzioni che distingue l’etica pubblica dalla morale privata diventa un ferro vecchio su cui è possibile ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi, diventano interscambiabili. L’arbitrio del capo, simbolicamente, non è più tale, ma diventa l’onnipotenza del pubblico, che può esibirsi come la forma più pura di democrazia. Si corre il rischio che la scomparsa della persona fisica, coincida con la morte del simbolo, ovvero ciò di cui la società fa conto per stare insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce per coincidere con l’instabilità, il disordine e con lotte fratricide”.

Riccardo Di Grigoli,  Master in Giornalismo di Torino

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Cosa e' Biennale Democrazia?
Biennale Democrazia è un laboratorio pubblico permanente, radicato nel territorio e rivolto alle grandi dimensioni della politica odierna, aperto al dialogo, capace di coinvolgere i giovani delle scuole e delle università e destinato a tutti i cittadini. Il progetto si articola in una serie di momenti preparatori e di tappe intermedie - laboratori per le scuole, iniziative destinate ai giovani, workshop di discussione, proposte specifiche - che culminano, ogni due anni, in cinque giorni di appuntamenti pubblici: lezioni, dibattiti, letture, forum internazionali, seminari di approfondimento e momenti diversi di coinvolgimento attivo della cittadinanza.
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  • Biennale Democrazia 2009
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Hessel ai giovani: reagite per costruire insieme un futuro di libertà e giustizia

  Sono le parole di Stephane Hessel ad aprire l’assemblea di chiusura del Campus di Biennale Democrazia: “Non basta indignarsi, bisogna cercare insieme di costruire libertà e giustizia. L’impegno dei singoli non è sufficiente. Bisogna unirsi per chiedere giustizia. L’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia è un momento stupendo per ritrovarsi. Democrazia, in greco, vuol […]

Il rapporto finale della discussione informata sul federalismo

è possibile scaricare il documento con i risultati della discussione informata di Biennale Democrazia svoltasi da dicembre 2010 ad aprile 2011, a Torino e nelle città partner del progetto, Firenze e Lamezia Terme.   Scarica il documento

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